Contro gli idoli della filosofia

Questo articolo è stato preparato per definire la mia posizione culturale dopo i dibattiti sul sito Yoga.it e li completa con il testo integrale dlle’articolo su Vittgenstein

……….Se un forum ha lo scopo di esprimere pareri, esporre opinioni è forse più bello scambiare informazioni e far conoscere delle nuove possibilità. Non è bello invece fare schiamazzi al limite del rispetto del prossimo e quindi non penso che sia opportuno controbattere più di due o tre volte coloro che hanno idee divergenti. Chi ha delle idee che gli servono per sentirsi sicuro e non le cambia per paura di negare parte della propria vita non va contrastato perché evidentemente ha dei tempi diversi. L’evoluzione delle persone e delle montagne vanno lente, lentissime od a scatti come nelle valanghe. Lasciamo fare al tempo,  anch’esso va lento quando aspetti un risultato o l’amata e veloce quando sei in ritardo. Ho dissotterrato dalla massa di vecchi articoli questo che può essere interessante ad una presa di coscienza del problema connesso con lo scambio di pensieri diversi. E l’ultima frase è riportata per affermare  che non voglio essere fanatico ne della scienza ne della contro-scienza. Neti-neti

Contro gli idoli della filosofia

Iconoclasta e solitario come un artista incompreso

Recensione sul quotidiano “Libero” Cultura pag 35 del 7 sett 2008 di Guido Bosticco del libro uscito nel 2008 in libreria: “Leggere Vittgenstein”

L’articolo è recuperato, completo di citazioni, su Yogaapaia.it

Qui solo alcuni inserti essenziali ed il finale.

Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli.

E questo significa non crearne di nuovi.

Chi non è certo di nessun dato di fatto

di fatto non può essere sicuro del senso

delle sue parole.

Chi volesse

dubitare di tutto,

non arriverebbe

neanche a dubitare.

II gioco del dubitare

presuppone già la certezza.

Alla fine dei conti, il muro che ci separa dalle “cose difficili” è quasi sempre un muro fatto di parole. Non riusciamo a comprendere che cosa si dicono due medici quando parlano fra di loro in linguaggio tecnico, non comprendiamo il significato di certe spiegazioni di fisica atomica perche manca un vocabolario adatto, cosi pure ci risultano ostiche certe argomentazioni che si trovano nelle sentenze di un giudice. Poi magari qualcuno le spiega in maniera più semplice, le chiarisce riassume e ci sembra di cogliere il significato appieno.

Prima fra tutte le discipline che fanno del linguaggio il suo strumento di indagine del mondo è la filosofia.  Essa ha costruito il suo vocabolario per poter investigare la  realtà e i concetti. Finché un giorno, in età contemporanea, si è deciso prendere il linguaggio stesso come oggetto di studio filosofico e si è cominciato a considerare quanto del nostro mondo non fosse altro che un puro costrutto linguistico. Forse tutto ciò che sta fuori dai confini del linguaggio non è alla nostra portata: che esista o non esista, che sia vero o falso, poco importa. Se sta di là non ha senso nemmeno parlarne. Mica male come approccio. Significa che una bella fetta dei problemi filosofici che hanno attanagliato l’umanità rischiano di essere spazzati via e considerati fraintendimenti. Sono problemi di linguaggio, non del pensiero: quindi se capiamo bene come funziona il linguaggio, evitiamo di arrovellarci su falsi problemi filosofici. Il calcio a duemila anni di storia, dato attorno al 1920 da un oscuro studente austriaco.

Ludwig Vittgenstein, questo il suo nome, voleva proprio chiarezza nel linguaggio. Mettere una parola fine alle confusioni filosofiche che erano generate (secondo lui ) da confusioni linguistiche. Egli scopri nella storia della filosofia questa frase (diverse ne scolpì, a dire il vero): “l limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Aveva nemmeno trent’anni quando l’ha scritta e già era stato soldato nella prima guerra mondiale e si era anche fatto un anno di prigionia. Poco prima della guerra aveva passato un periodo da eremita in Norvegia, nell’intento preciso di risolvere definitivamente i problemi della logica. E con I’uscita del suo Tractatus logico-philosophicus, I’unico libro che pubblicò in vita, era convinto di avercela fatta. Ma qualche anno dopo, nel 1929, tornò  a Cambridge, dove aveva mosso i primi passi da filosofo sotto la guida del grande logico Bertrand Russell. Ludwig tornò a dedicarsi alla sua ossessione: e non voleva costruire nulla nel mondo, non voleva progettare edifici filosofici, ma si sarebbe accontentato di fare chiarezza su fondamenta degli edifici possibili.

Studiò quindi il linguaggio e le sue regole, esaminando come in esso risieda il potere della conoscenza.

Vittgenstein costruì così tutta la sua filosofia, come una scala a pioli che, una volta utilizzata per salite, si possa gettare.

Un paradosso continuo, una scrittura enigmatica, una personalità complessa. Ricchissimo di famiglia, lasciò tutto per fare di tutto. Fu maestro elementare, giardiniere, architetto (la casa da lui progetta a Vienna per la sorella Gretl è monumento nazionale), infermiere e docente universitario. E soprattutto fu in eterno conflitto con la sua interiore forza intellettuale, incapace di scendere a compromessi. Alla sua vita eccentrica sono dedicati un film diretto da Derek Jarman e una splendida biografia scritta da   Ray Monk qualche anno fa. Oggi, lo stesso Monk ha pubblicato un libro intitolato “Leggere Wittegestein” (Edizioni Vita e pensiero, pp.ll2,euroI2).

Ludwig stava bene in solitudine, racconta Monh, ma aveva anche bisogno di un pubblico, due suoi libri nascono sotto dettatura ai suoi allievi, durante le lezioni; altri due invece: “Le Ricerche filosofiche” e “Le osservazioni sui fondamenti della matematica”, arrivano da un biennio di isolamenti, in Norvegra, a Skjolden, un paesino posto alla fine del lunghissimo Soghefjioden, su cui si faceva lunghe remate in barca tra uno scritto e l’altro. Siamo già in quella fase che la critica insiste a definire il “secondo Wttgenstein”, rispetto al  “primo”, del Tractatus; come fosse un menù da ristorante e con la normale evoluzione intellettuale di un pensatore e di un artista.

In realtà tutto il percorso del filosofo austriaco è una unica grande ricerca sulla chiarezza e sui  limiti del linguaggio (e quindi del pensiero) con una strana commistione di rigore matematico espressivo e allo stesso tempo di aperture verso spazi misteriosi verso i quali non ci è concesso di accedere.

La conclusione laconica e lapidaria del suo Tractatus è infatti: “Tutto ciò che si può dire, lo si può  dire chiaramente. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

Sublime. In essa si intravvede anche il percorso che sarà poi del fantomatico, “secondo” Vittgenstein. Negli ultimi lavori, si dedicò a ragionare sulla comprensione delle persone, anche sfiorano la psicologia e l’antropologia. Come quelli “sulla evidenza imponderabile” che  ci permette di comprendere se una persona è sincera, se uno sguardo è davvero innamorato o se soltanto finge di esserlo. Quella evidenza, che non sì puo esprimere a parole, né tradurre in regole o in calcoli, che non è frutto di ragionamenti, ma nemmeno semplice esperienza: un evidenza che sfugge alla scienza e che invece è alla base della reciproca comprensione delle persone. Un modo di comprendere il mondo molto più vicino alla sensibilità degli artisti che a quella degli scienziati e dei filosofi.